Non un devoto ricordo, ma una vita che vibra, di Michele Faldi.
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Tutto è già nel titolo. Sono passati ben più di vent’anni dalle Equipe del Clu raccolte in questo volume e il titolo indica una contemporaneità. È un paradosso che ben si addice al testo, perché quelle parole pronunciate negli anni Ottanta mantengono (e forse rafforzano) tutta la loro forza persuasiva ancora oggi. E qui già dovrei fermarmi per dire cosa fossero questi incontri che tre volte l’anno radunavano i responsabili degli universitari con Giussani: non erano la “scuola quadri” e neppure i luoghi strategici per la conduzione delle comunità, non c’erano linee da indicare o programmi da perseguire. Da giovane studente ho avuto la fortuna (meglio sarebbe dire la “grazia”) di esserci stato: erano l’occasione per “stare” con Giussani, per dialogare con lui, per vederlo in azione. Ventenni di allora li sentivamo come i momenti più importanti della vita (per essere presenti, talvolta, non si davano gli esami, si litigava con i genitori per avere la macchina); nel tempo si sono rivelate essere i nodi di un fil rouge lungo il quale siamo impercettibilmente diventati grandi, siamo cresciuti, ci siamo addentrati un po’ meno confusamente nel «vago Mister».
Rileggerle oggi non è solo riascoltare o riscoprire contenuti, non è perdersi in un devoto ricordo, ma accorgersi di come eravamo (fragili, inconsistenti, un po’ ideologici) e di come siamo oggi (forse come allora, ma resi certi dalla storia della propria esperienza). Addentrarsi nel libro vuol dire cogliere cosa voleva dire permanere nel rapporto con quell’uomo (l’aveva detto lui stesso anche pubblicamente ad un Meeting): non essere mai tranquilli. E ciò non voleva dire essere nervosamente tesi, ma preoccupati, attenti, senza paure, anche quando si facevano domande involute ed incomprensibili o si azzardavano risposte francamente inconcludenti (e il libro ne è pieno). Spesso accadeva che le cose ascoltate si cominciassero a cogliere solo mesi dopo o che le domande poste avessero risposta non immediata, ma molto più tardi emergendo dall’esperienza. Il caso del Volantone di Pasqua è forse il più emblematico: era pubblicato – come oggi – tra marzo ed aprile; veniva appeso dovunque dentro gli atenei, se ne parlava all’interno, talvolta ferocemente discusso all’esterno (come quello con Guernica nel 1984), segnava letteralmente la vita delle persone e delle comunità del Clu; ad agosto nell’Equipe era ancora lì, ci era riposto davanti, diventava il cuore dei dialoghi e delle assemblee.All’epoca non c’era nient’altro; non c’erano molte strutture o strumenti (non esistevano i Centri culturali o la CdO, Il Sabato usciva in edicola solo a Milano, il Meeting aveva pochi anni): le Equipe per noi erano “tutto”. Qui abbiamo cominciato ad accorgerci che c’erano Rilke e Claudel, Mozart e i cori russi ascoltati per la prima volta da un vecchio magnetofono a nastri, Eliot e Grossman. Dopo tanti anni, rileggendo questi testi, oso dire che non solo hanno segnato la vita di chi era presente e vi ha partecipato, ma anche quella del movimento tutto, in Italia e – proprio dall’Equipe – a poco a poco nel mondo. Da queste pagine, infine, si coglie come, anche metodologicamente, si comunicavano la passione educativa e la febbre di vita di Giussani. E risulta chiaramente che non era una strategia a guidarlo, ma la preoccupazione che passo dopo passo, insieme, si camminasse verso il Destino buono di ciascuno: «Una Equipe deve anche preoccuparsi di annusare l’aria, di individuare il buco nuovo nella siepe, l’apertura nuova, perché un lavoro che non dia un’apertura nuova o il presentimento di un’apertura nuova è un lavoro che non scopre nulla: sarebbe deduttivo e non induttivo» (p. 121). In una parola, un avvenimento di vita che è diventato storia.
(da Tracce, settembre 09)