Appunti e materiali per un lavoro culturale.

Appunti dall’intervento di Costantino Esposito

RM_20101015_MG_8852 piccolaIn attesa di pubblicare la trascrizione dell’incontro, riportiamo qui di seguito alcuni appunti dall’intervento di Costantino Esposito.

La conferenza ha avuto un andamento strutturato, di grande efficacia nel chiarire un punto nodale, capace di esternare la valenze non solo culturali ed intellettuali del tema ma anche esistenziali e quotidiane. In altre parole l’ articolata digressione storico-filosofica ha reso possibile comprendere l’assunto svelato alla fine e che può essere così sintetizzato: oggi la fede è resa problematica a causa di un percorso filosofico, che al contempo, con ancor maggiore gravità, ha reso impossibile anche e soprattuto il corretto esercizio della ragione (ricerca spregiudicata e radicale del vero), ovvero proprio l’istanza originaria da cui aveva preso le mosse il pensiero moderno.

Difatti il pensiero moderno sviluppa un percorso volto a dare al sapere una solidità ed una capacità di certezza assoluti. Esigenza giusta, nata in mezzo ai tormenti della società e della cultura del Seicento. Esigenza che nasce dal non riuscire a trovare soddisfazione a questo bisogno di verità in nessuna delle discipline di studio, al punto che Cartesio parla di un “desiderio estremo” di conoscere la verità. Tuttavia in questa giusta esigenza di verità si è scelto di guardare all’io come a ciò che solo è in grado di fondare un nuovo metodo per giungere alla verità. Così si è scelto di fondare il nuovo metodo, “non più partendo da ciò che mi era dato, ma dalla evidenza che il pensiero era per se stesso”.  In questo troviamo il carattere tragico della genialità di Cartesio, che comprende perfettamente la crisi della “evidenza”, (il mondo non trova più il suo significato, il suo senso), ma che poi fonda una ragione che si involve su se stessa. Attraverso la lettura di suggestivi passi di Cartesio e di Kant, Costantino ha mostrato questo contrasto tra la vecchia e solida esigenza di verità (espressa dagli autori in maniera geniale) e questa una nuova fondazione del sapere. Interessante l’analisi dell’ “imbarazzo della ragione”, ovvero l’aporia che essa incontra quando si confronta con la sua stessa natura. Per sua natura desidera la conoscenza della totalità, ma al contempo avverte la vertigine di queste domande alle quali non sa dare risposta (Kant). Per superare il paradosso anche Kant sceglie di soffermarsi su ciò che corrisponde alle capacità logico consequenziali della nostra ragione, identificando con esse la verità del reale. Entro questa ricerca all’interno dell’io, non entra la fede, avvertita ora, come è ovvio in questo contesto, quale semplice aspetto soggettivo, intuitivo-mistico, o sentimentale. In tal senso lo stesso Pascal non sfugge a questa svista. La ragione che fonda sè su se stessa non lascia posto alla fede come sapere, ma solo come sentimento.

Una grande opzione è dunque entrata in gioco. Da una parte la tradizione: la realtà si lascia conoscere da me, mi tocca, è un dato. Che la ragione si compia, mi questo contesto, è possibile per l’azione compiuta da un Altro diverso dalla ragione.

Dall’altra il razionalismo: non interessa sapere se veramente esistono le cose. Interessa semplicemente “pensarle”, cioè produrle come schemi razionali. La traiettoria della ragione si curva dentro di sè. Conosciamo ciò che noi produciamo. Dio, così, diviene l’effetto di una fede morale (Kant). Sapere e fede sono opposte “[…] dovetti dunque annientare la conoscenza, per fare posto alla fede” (Kant).

Viene, in altri termini annullata la percezione dell’esperienza come esperienza di un dato.

La vera frattura, quindi, non è tra il sapere e il credere, ma la vera frattura è tra l’io e la realtà.

Ma a questo punto accade un paradosso. Quanto più perdo la realtà come una realtà che mi tocca, che si presenta come un dato, tanto più perdo il rapporto con me stesso. Questo io, che sostiene tutta la realtà conosciuta, non possiamo esso stesso conoscerlo (Kant) ed è ridotto alle sue interazioni mentali, alle sue funzioni.

La ragione diviene pura funzione di calcolo, senza sapere più nulla di se stessa.

Il grande problema della filosofia moderna è l’incapacità di accettare il dato  e accettare di essere dati (il reale e l’io), trovandosi a non riconoscersi più.

Ma c’è qualche cosa che non torna in questo procedimento.

Qui non si tratta, in realtà, della difesa della fede, quasi a dire: siccome siamo cattolici tra noi occorre difendere la fede e trovarle un posto, accettando magari questa impostazione (conoscere è misurare), aggiungendo però uno spazio per il credere, giacchè ci sono cose più importanti di quelle da misurare. Se così si facesse, la battaglia sarebbe già persa, perché la fede sarebbe ridotta ad un optional, che in effetti, è anche concesso dalla cultura dominante. La fede infatti è accettata se resta ininfluente sulla vita reale.

Il problema drammatico, invece, è che non funziona la conoscenza. Senza la prospettiva della fede è impoverita la stessa conoscenza, poiché ci fermiamo al semplice calcolo, all’ipotesi già conosciuta, a quanto a priori può rientrare nelle nostre capacità logico-dialettiche.

Senza la prospettiva della fede noi non vediamo la realtà, ci fermiamo un attimo prima.

Ciò che perdiamo, dunque, non è semplicemente un Dio di  cui, tutto sommato possiamo fare a meno (un Dio che è un punto di fuga per animi sensibili), ma è il reale, a causa di un impoverimento della percezione. Avere come sguardo della nostra intelligenza l’attesa e  la curiosità di arrivare a conoscere l’essere, ci fa percepire  in maniera quasi fisiologicamente diversa le cose, perché ci permette di non fermarci al semplice “meccanismo”.

La frattura tra sapere e credere ha come posta in gioco niente di meno che il riuscire a cogliere la realtà nella sua imponderabilità, rispetto ad un modo di ridurre la realtà a ciò che a priori sono capace di percepire.

Quello che qui si viene a perdere è esattamente la domanda di verità dei moderni: l’ “estremo desiderio del vero” (Cartesio) e quelle domande ultime senza le quali la ragione non sarebbe più tale (Kant).

Una ulteriore implicazione è l’ impossibile esperienza della libertà. Se tutto quello che possiamo conoscere è soltanto ciò che possiamo misurare, allora il nostro io non sarà mai di fronte a qualcosa di più grande di sé. Alla ragione manca la libertà di poter scoprire qualcosa di veramente nuovo.

Ratzinger sosteneva nel 1996 che “le difficoltà della ragione positivistica, sono diventate le difficoltà della nostra fede….  Se resta l’orizzonte della ragione kantiana, la fede è destinata ad atrofizzarsi”. Tuttavia, la fede prosegue Ratzinger, ha una possibilità di successo oggi, poiché corrisponde all’esigenza di mistero e verità propria della ragione umana. Si può anche però ribaltare la questione e dire che la ragione ha una sua possibilità di successo oggi (evitando di dominare, misurando il mondo, e però perdendo se stessa) solo se riuscirà a stupirsi ancora per la realtà riscoprendola (e riscoprendosi)come un dato. In questo senso la fede è essenziale alla ragione. La fede può dare alla ragione la possibilità di essere effettivamente ragione (apertura alla totalità del reale).

L’esito della divisione illuministica (se la ragione vuole essere vera, deve assolutizzare se stessa ed eliminare la fede) è stato l’annullamento della ragione stessa.

La fede cristiana oggi per le giovani generazioni è interessante perché è la possibilità di essere finalmente di nuovo uomini ragionevoli.

Postilla

Noi pensiamo che la realtà sia qualcosa di lontano da noi, mentre siamo immersi in una rapporto con il senso della realtà. Tant’è che noi pensiamo che ciò che non abbiamo previsto noi sia il caso. Neghiamo cioè che l’imprevisto abbia un senso. Invece siamo dentro un rapporto fin dall’inizio, fin dall’interno del seno di nostra madre. Prima di ogni casualità e ogni paura, noi abbiamo il “senso” che siamo in rapporto con qualcosa. La fede è una risorsa straordinaria per la ragione, perché è come se permettesse la scoperta che noi siamo adesso un rapporto con qualcuno che ci vuole.Questo rapporto ci apre all’orizzonte profondo del reale e impedisce la riduzione. Ma questo va riscoperto adesso nel rapporto con le cose, non come prospettiva di un oltremondo aggiuntivo a quello quotidiano.

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